Gira in rete l’ennesimo “Manifesto per la nuova (?) scuola” promosso da gruppi, collettivi e singoli che hanno avuto cura di evidenziare i nomi più prestigiosi tra i sottoscrittori dell’appello: Alessandro Barbero, Luciano Canfora, Chiara Frugoni, Carlo Ginzburg, Vito Mancuso, Dacia Maraini, Tomaso Montanari, Filippomaria Pontani, Adriano Prosperi, Massimo Recalcati, Salvatore Settis, Gustavo Zagrebelsky.
Come Gruppo Condorcet non abbiamo dubbi che le personalità qui citate abbiano letto, riflettuto e condiviso la semantica e i nessi conseguenti di questo manifesto, ma forse non hanno colto a fondo la logica generatrice dell’appello che, invece è tanto appariscente quanto implicitamente retriva. In buona sostanza, come in questo caso “la nuova scuola” è assai vecchia e occorre sostenerla in evoluzioni “evidence based”, invece di ancorarla ad idee morte e sepolte.
Nel pieno rispetto degli estensori e dei/delle sottoscrittori/trici, con la nostra onestà intellettuale ci esercitiamo quindi nella critica del manifesto che analizziamo punto per punto, esprimendo la nostra visione. Condivisibile o no, offriamo un’analisi e una diversa prospettiva, anche al fine di sviluppare un sano dibattito.
1) La scuola come luogo della relazione umana e del rapporto intergenerazionale
La scuola si occupa delle persone in crescita, non di entità astratte scomponibili e riducibili a una serie di “competenze”. L’insegnamento e l’apprendimento toccano infatti tutte le dimensioni dell’essere umano – intellettuale, razionale, affettiva, emotiva, relazionale, corporea – tra loro interconnesse e inscindibili; bisogna sempre ricordare, in tal senso, che quello tra gli insegnanti e gli studenti è prima di tutto un rapporto umano.
L’idea che la scuola possa essere incentrata sulla semplice acquisizione di “competenze” è profondamente sbagliata, sia perché applica a un ambito, quello scolastico, categorie nate in tutt’altro ambito, quello cioè dell’azienda e della produttività lavorativa, sia perché esclude appunto la dimensione integralmente umana, centrale nella scuola e nei processi lunghi e non lineari dell’apprendimento e della crescita.
Osservazioni di Condorcet
Ogni persona è unica. Le persone non sono riconducibili ad una serie di competenze, come non sono riconducibili ad una serie di conoscenze. Tutto ciò che viene detto nel “Manifesto” sull’umanità del processo di insegnamento-apprendimento è condivisibile, ma l’alternativa storica alla “scuola delle competenze” è la “scuola delle conoscenze” e, spesso, le conoscenze sono intese in senso restrittivo e in falsa opposizione alle prime contro le quali si sono schierate orde di pedagogisti di ogni orientamento stigmatizzando la questione come “scuola nozionistica”. Di fatto, la lotta contro le competenze tende a ripristinare “la vecchia buona scuola”, quella che nessuno ha mai frequentato perché se si pensa al secolo scorso, negli anni venti era selettiva, negli anni trenta era razzista, negli anni quaranta era bombardata, negli anni cinquanta e sessanta è tornata ad essere selettiva e negli anni settanta e ottanta ha iniziato a diventare “scuola di massa” ed ha cominciato faticosamente ad evolvere nel senso dell’inclusione (dei disabili, degli stranieri, degli studenti e delle studentesse con disturbi specifici di apprendimento o con bisogni educativi speciali). Vale la pena ricordare che la Generazione X frequentava le scuole superiori al 50% della popolazione, mentre oggi arriviamo a percentuali stabilmente sopra il 95%. Forse non piace la scuola di massa, ma è quella che include tutti e vorremmo che ci si interrogasse su come fare in modo che inclusiva lo sia per davvero perché “la Repubblica rimuove gli ostacoli”, ma la nostra società subisce alti tassi di dispersione di cui molti parlano, ma di cui pochi propongono e promuovono soluzioni.
Più in generale occorre osservare il fatto che negli anni cinquanta, sessanta e settanta del secolo scorso, la gran parte degli scolari italiani acquisiva certe competenze a casa, dove si imparava a fare il contadino, il muratore o l’artigiano, mentre a scuola si imparava a “leggere, scrivere e far di conto”, ma anche a vedere le cose dall’alto. Oggi, in una demografia quasi completamente inurbata, le competenze offerte dalla società moderna sono modeste (anche quelle digitali sono “di uso” non di progettazione), spesso solo quelle di ambito sportivo che daranno il pane a qualche fortunato e bravo calciatore, ma non a tutti. Se un tempo la scuola doveva razionalizzare per compensare l’ignoranza diffusa, oggi deve industriarsi per fornire delle competenze perché con quelle si lavora e si mantiene una famiglia. Spiace osservare che non tutti hanno un mestiere ereditato dai genitori e che molti hanno bisogno di competenze come il pane. Perché con queste si guadagneranno il pane.
Ma ad alcune lobby interessa ripristinare l’idea di scuola che ha frequentato e che ha superato brillantemente, quella dei licei che hanno dato respiro, troppo spesso grazie al capitale sociale e familiare, alle proprie carriere, dimenticando i dispersi. Parlare di NEET è scomodo perché mette in discussione la scuola della lezione frontale.
2) Per una scuola della conoscenza
Per svolgere il compito che le è affidata dalla Costituzione, la scuola pubblica deve essere incentrata sulla conoscenza e sulla trasmissione del sapere, oltre che sul rispetto delle esigenze psico-fisiche di crescita dei giovanissimi. Solo attraverso il confronto con i contenuti culturali, la loro elaborazione e acquisizione – a partire da un’approfondita e reale alfabetizzazione – gli studenti potranno diventare cittadini liberi e consapevoli, in grado di contribuire a un autentico progresso della società. Senza l’istruzione delle nuove generazioni, la stessa democrazia è svuotata di sostanza.
Osservazioni di Condorcet
Occorre assolutamente fare chiarezza e rilevare il fatto che la battaglia contro le competenze tenta di risolvere un problema mal posto. In letteratura, i modelli più noti che le invocano, ad esempio quello francese (sapere, saper fare, saper essere) e quello anglosassone (conoscenze, abilità, attitudini), di fatto le includono nella definizione. Le conoscenze sono quindi innestate nelle competenze. Chi si contrappone alla scuola delle competenze, in genere, predilige quella delle conoscenze, ma queste non sono negate dal modello delle competenze che semplicemente è più esteso. Si chiede, quindi, di ridurre il modello ad una sola delle componenti delle competenze, quella del/le sapere/conoscenze, dimenticando il resto. E il resto è emerso da studi e riflessioni pedagogiche anche secolari, mentre la banalizzazione viene spesso veicolata da chi, con la scuola, nulla ha a che fare, ben supportato da gruppi che nella scuola ci sono, è vero, ma che la vogliono semplicemente conservare a propria immagine e somiglianza.
Corre l’obbligo notare come il modello della “scuola delle conoscenze” di fatto si incardina nelle prassi scolastiche tanto diffuse quanto inefficaci: Spiego, Studi, Interrogo, Dimentichi (SSID). Il lettore fornisca senza ricerca in rete l’elenco degli affluenti del Po, la data della firma della Magna Charta Libertatum, la formula del delta di un polinomio di secondo grado. Sono dati facilmente disponibili in rete, ma che (salvo eccezioni) tutti abbiamo dimenticato. “Il confronto con i contenuti culturali” si riduce quindi al nozionismo delle interrogazioni. Nulla, nel manifesto, fa supporre diversamente allorquando una vera battaglia per la “nuova scuola” dovrebbe invocare le pedagogie attivistiche note da almeno un secolo (si pensi a Maria Montessori, in primis) che sono rimaste lettera morta e che sono persino invocate dalla “pedagogia ministeriale” essendo il ministero ripagato con scherno e violenta riprovazione. C’è più pedagogia in tante note ministeriali che in questo manifesto, purtroppo.
Vale la pena rivelare che due ore di riunione di Collegio dei Docenti spossano la maggioranza degli/delle insegnanti dello stivale, ma somministrare sei ore al giorno di spiegazioni (“dialogiche!”, per carità, ci direbbe un qualsiasi insegnante di “vecchia scuola”) non desta alcuna preoccupazione, per non parlare del totale scoordinamento nell’assegnazione dei compiti e delle interrogazioni. Niente si dice sui carichi di lavoro, sulle esplosioni valutative di fine quadrimestre, perché queste fanno parte di quelli che sono gli assiomi occulti della scuola (prendiamo questa locuzione dagli scritti di Maurizio Parodi). Promuovere invece modalità di apprendimento cooperativo, rompere il totem del gruppo classe, la rigidità del curricolo, sono solo alcune opzioni innovative di cui nessuno vuole parlare perché questo sposterebbe il mestiere dell’insegnante dall’essere quello di un “dipendente statale” che a volte vuole essere, a quello di un professionista che gestisce il proprio tempo a disposizione dello scopo della scuola: il successo formativo degli studenti e delle studentesse.
Infine, occorre sottolineare il fatto che parlare di “carriere degli insegnanti” è peccato mortale (docenti CLIL, cattedre miste degli insegnanti specializzati, docenti mediatori culturali, tutores e supervisori in raccordo con le Università, senza sudditanze e, beninteso, coordinatori dell’alternanza scuola-lavoro, le figure di staff, sono alcuni possibili esempi). La scuola è l’unico posto di lavoro dove fare carriera è vergognoso e lo staff viene quotidianamente etichettato come “i leccaculo del preside”. È tuttavia noto il fatto che una scuola senza staff è destinata ad amministrare il minimo sindacale.
3) Un giusto rapporto tra mezzi e fini
Se è vero che la scuola deve essere fondata sulla conoscenza, sul sapere, sullo studio, tutti gli strumenti e i metodi dell’insegnamento, compresi quelli legati all’uso delle tecnologie digitali, devono rimanere o ritornare a essere dei semplici mezzi, da utilizzare non a prescindere ma se e quando le necessità della condivisione dei contenuti culturali (che è continua attività dell’intelligenza, attualizzazione e rielaborazione critica delle conoscenze guidata dall’insegnante) lo richiedano. Vanno cioè evitati i deleteri rovesciamenti e le frequenti inversioni di priorità tra mezzi e fini che hanno caratterizzato il “didattichese” degli ultimi decenni – al punto che alcuni sembrano pensare che i mezzi siano essi stessi il contenuto della didattica – e va restituito il giusto posto alla libertà di insegnamento (spesso schiacciata e conculcata dall’imposizione di mode di scarsissimo valore didattico e culturale), nel segno di un’istruzione il più possibile ricca e plurale e della responsabilità educativa degli insegnanti. Bisogna ricordare come gli insegnanti siano degli intellettuali e dei professionisti, il cui compito non è quello di applicare burocraticamente e passivamente delle decisioni prese altrove, ma quello di trovare di volta in volta i mezzi più adatti per l’insegnamento. D’altra parte, non si capisce in che modo un insegnante ridotto a burocrate e certificatore potrebbe aiutare gli studenti ad acquisire un indispensabile senso critico di fronte alla realtà e ai contenuti culturali di cui via via essi si appropriano.
In qualunque ragionamento sui mezzi, non va poi dimenticato come l’uso sempre più pervasivo della tecnologia digitale – che il ricorso alla “didattica a distanza” ha reso preponderante anche a scuola, a discapito di ogni esigenza didattica ed educativa che richiedesse strumenti diversi – sia collegato ai disturbi da iperconnessione che colpiscono i giovanissimi, ai rischi del ritiro sociale, al senso di insicurezza fino agli attacchi di panico, fenomeni che insorgono anche in conseguenza della mancanza di rapporti che è possibile vivere solo in presenza e della negazione della dimensione fisico-corporea, la cui messa in gioco è fondamentale per le persone in crescita. In questo contesto andrebbe sempre ricordato che la relazione, le parole, i gesti e tutto ciò che passa nella comunicazione non verbale sono i primissimi strumenti degli insegnanti, gli unici davvero indispensabili.
Osservazioni di Condorcet
La scuola deve senz’altro anche essere fondata sullo studio, ma è bene ricordare che troppo spesso lo studio è delegato alle famiglie, condannate a pagare fior fior di ripetizioni esentasse. Si spiega a scuola e si studia a casa, abbandonati a sé stessi, quando più ci sarebbe bisogno del supporto dell’insegnante e dei pari (ancora ci ispiriamo a scritti di Maurizio Parodi). Sovente si rileva il paradosso che nella scuola del tempo pieno, quello delle quaranta ore settimanali, si danno compiti a casa. Bambini di sei, sette, … dieci anni lavorano e studiano a scuola per quaranta ore e studiano a casa per altre due, tre ore al giorno, per fare i compiti. Non tanto meglio va agli studenti e alle studentesse degli istituti tecnici e degli istituti professionali che di ore a scuola ne fanno 32 o 33 e devono parimenti studiare due, tre o quattro ore al giorno. I tagli di dieci anni fa che li hanno “liceizzati”, potando materie tecnico pratiche e innestando un curriculum teorico molto forte, non ha scandalizzato nessuno. Sul fronte del monte-ore, i licei frequentano per 27-30 ore (al netto di eccezioni quali, ad esempio, il liceo artistico), ma in questi contesti è noto il fatto che la richiesta di lavoro a casa può arrivare anche a cinque-sei ore al giorno. Nelle scuole medie si lavora per 30 ore alla settimana, spesso in cinque giorni, sacrificando sull’altare del week end delle famiglie abbienti quei tempi morbidi che consentirebbero apprendimenti più efficaci; tuttavia parlare della scuola al sabato produce reazioni scomposte tra gli/le insegnati e, ahinoi, spesso anche tra le famiglie (tutte con la casa in montagna?). Entrare alle otto del mattino e uscirne alle due ha gravi conseguenze anche sulla dieta dei ragazzi e delle ragazze e sulla conseguente educazione alimentare, ma non importa ad alcuni intellettuali interessati a “verità demagogiche”, attenti a non dire cose scomode.
Sul tema delle tecnologie, non esiste pedagogista sostenitore dell’uso delle medesime come fine. Ad esempio, il sottotitolo dei Corsi di Perfezionamento “EPICT” (European Pedagogical ICT Licence) erogati dall’Università di Genova è stato a lungo: “No alle tecnologie senza un fine pedagogico!” (“no ict without pedagocical rational”). Da più di tre lustri.
Si evoca quindi un argomento inconsistente, un fantasma (le tecnologie come fine e non come mezzo) che altri non è che la fallacia logico-retorica nota come “falsa attribuzione”.
Peraltro è evidente che siamo immersi nelle tecnologie e che la scuola rinunci ad educare all’uso consapevole delle medesime è semplicemente folle, come folli sono tutti i divieti all’uso di quei supercomputer che oggi abbiamo nel taschino (si confronti la potenza di calcolo di uno smartphone con quella degli strumenti introdotti in aula negli anni novanta e nei primi anni duemila) che occorre sforzarsi di integrare nella didattica perché una delle competenze chiave di cittadinanza è “imparare ad imparare” e chi può, meglio della scuola, insegnare ad attingere fonti accreditate in rete? Il vero dramma è che, purtroppo, non è troppo raro che un docente non sappia che farsene delle tecnologie perché è ancorato alla “didattica del libro”. Dietro il libro, qualcuno potrebbe dire, ci sono interessi economici delle case editrici, ma si è rilevato il fatto che le innovazioni promosse da queste si sono schiantate su quella che potremmo chiamare “scarsa accoglienza”. Ed ecco che anche le case editrici scolastiche, per necessità, si rassegnano ad un ruolo di conservazione.
La battaglia in difesa della libertà di insegnamento sembra un’altra falsa attribuzione, giacché è tutelata, caso unico al mondo, in ogni rigo della legislazione vigente. Tuttavia “libertà di insegnamento” non significa “fare il cavolo che ci pare” e i vincoli sono quelli posti dalle linee guida e delle indicazioni nazionali (se insegno matematica non posso insegnare greco durante le mie lezioni, questo sembra pacifico), nelle quali sono persino spariti i programmi prescrittivi, e dal Collegio dei Docenti con la programmazione da questo deliberata. La cosa non è sufficientemente nota, anche tra gli/le insegnanti giacché non sempre le hanno davvero lette.
Si potrebbe aprire una parentesi sul paradosso della libertà di insegnamento. Se un marziano atterrasse sul nostro pianeta e gli fosse riferito che nel nostro paese vige la libertà di insegnamento, questi ispezionando le nostre scuole si aspetterebbe ampi spettri di possibilità didattiche. Invece osserverebbe lunghe, proprio perché pervasive, noiosissime ed inefficaci lezioni frontali. Ne consegue che le soluzioni di volta in volta trovate dagli/dalle insegnanti italiani, tutelati da questo diritto costituzionale erede di una comprensibilissima e storica iper reazione al fascismo, sono tutte uguali e, comprensibilmente, sono sempre quelle di tipo “economico”. Paradossalmente, di conseguenza, per ottenere uno spettro più ampio di didattiche nella scuola, occorrerebbe abolire la libertà di insegnamento.
Come negare, infine, che molti dei sintomi evocati in questo punto del “Manifesto” non emergono a causa dell’uso delle tecnologie a scuola o a casa, ma sono soprattutto figli di didattiche aggressive basate sulle logiche di potere, in particolare quella legata al voto?
4) Il mancato coinvolgimento degli insegnanti nelle “riforme” degli ultimi vent’anni
Poiché la scuola pubblica ha come finalità l’istruzione e la formazione umana e culturale delle persone in crescita, i decisori politici, prima di ipotizzare qualunque “riforma”, dovrebbero interloquire con gli esperti della trasmissione culturale e quelli dell’età evolutiva – insegnanti, psicoanalisti, intellettuali, educatori – e non con i rappresentanti di associazioni private – Fondazione Agnelli, Treelle, Anp, Invalsi – che rappresentano e perseguono appunto interessi privati.
Osservazioni di Condorcet
Molto spesso il punto di riferimento per le “riforme” sono i sindacati degli insegnanti, e su questo nulla abbiamo da obiettare, trattandosi di portatori di interesse legittimo. Peraltro anch’essi sono “associazioni private” e, in genere, laddove forze collettive di tipo intellettuale, quali ad esempio la Fondazione Agnelli e TreElle, forniscano contributi programmatici ed elaborazioni che sono senz’altro “di parte”, come lo sono quelle di CGIL, CISL, UIL, SNALS, Gilda, ANIEF, occorrerebbe confrontarsi nel merito delle medesime evitando di evocare l’argomento “ad hominem” (altra fallacia logico-retorica che con la presente smascheriamo nella evidente modestia della medesima). Sfugge il perché si inserisca l’INVALSI nell’insieme delle “associazioni private”, se non per motivi di sintesi pelosa. D’altro canto non è chiaro perché si dovrebbe escludere dal tavolo della discussione ANP, principale sindacato dei dirigenti scolastici italiani, come se questi non fossero parimenti legittimati ad esprimere pareri e indicazioni al pari degli altri. Certo, le forze in campo sono diverse, anche elettoralmente, giacché i/le presidi sono ottomila, mentre gli/le insegnanti sono, a spanne, cento volte tanto e il personale della scuola tutto supera il milione di persone. Ma tutti sono portatori di interessi legittimi e tutti dovrebbero avere legittimità e agibilità nel dibattito.
Si invoca la collaborazione di insegnanti, psicoanalisti, intellettuali ed educatori, ponendo tuttavia vincoli in merito a quali di questi possano essere convocati. Ci si dimentica delle associazioni dei genitori (ad esempio di Coordinamento Genitori Democratici fondato da Marisa Musu e Gianni Rodari) che spesso hanno criticato la scuola nozionistica delle conoscenze, delle associazioni professionali (ad esempio CIDI e ADI, UCIIM) che parimenti hanno spesso mosso pesanti critiche alle didattiche passive, e di tutti i portatori di interessi legittimi sulla scuola che non sono solo dentro la scuola. Anche Confindustria ha il diritto-dovere di esprimersi su un modello di scuola e non è uno scandalo dirlo. Ne ha diritto al pari dei sindacati, delle associazioni, dei partiti e dei sottoscrittori di questo “Manifesto”. Anche il Gruppo Condorcet ha diritto di esprimersi e mai ci sogneremo di impedire a terzi di essere auditi in una commissione parlamentare o di produrre documenti e contributi pubblici, condivisi o no, che piacciono o no. Questo modo di procedere, nel quale si indicano “i buoni ed i cattivi”, ricorda una scuola davvero vecchia, sconfitta dalla storia.
Dulcis in fundo, la vituperata “Buona scuola” è stata preceduta da un intenso dibattito, anche online, dove tutti, ma proprio tutti, hanno potuto interloquire col Governo. Tutte le istanze presentate da singole persone, insegnanti inclusi, gruppi informali, associazioni, sindacati e partiti sono state acquisite, lette, approfondite e sintetizzate. Da questo enorme lavoro è emersa una Legge, la 107 del 2015 e i decreti delegati del 2017, che può piacere o non piacere, ma solo perché non è possibile raccogliere tutte le istanze che, per loro natura, sono contraddittorie e la sintesi non può che essere una scelta politica che scontenterà qualcuno necessariamente. Tuttavia il metodo adottato è stato proprio quello invocato dai sottoscrittori del “Manifesto”.
5) Il reclutamento e la formazione degli insegnanti
La formazione e il reclutamento degli insegnanti devono avere al centro la preparazione culturale, la conoscenza approfondita e di prima mano dei contenuti disciplinari – solo degli autentici esperti possono infatti trasmettere agli studenti la passione per il sapere e per le singole discipline – la motivazione e la propensione all’insegnamento, alla condivisione culturale e alla relazione con le persone in crescita. Per quanto riguarda l’aspetto relazionale, gli insegnanti devono poter avere un confronto con esperti dell’età evolutiva di comprovata esperienza ed elevata professionalità, anche attraverso lo strumento dello sportello d’ascolto o di gruppi dedicati, per esaminare le dinamiche su cui si fonda il rapporto educativo e per poter sciogliere, dove occorra, eventuali nodi relazionali.
Osservazioni di Condorcet
Spiace osservare che il modello integrato disciplinare-metodologico-professionale proposto dagli intellettuali sottoscrittori del “Manifesto per la nuova (?) scuola” era stato implementato proprio dalla Legge 107/2015 (la cosiddetta “Buona scuola”) allorquando, dopo tre lustri di tentativi con SSIS, corsi riservati, TFA e PAS, aveva finalmente raccordato la formazione iniziale col reclutamento tramite il FIT (Formazione Iniziale e Tirocinio). Prima del FIT, precari “ben formati” hanno stazionato in graduatoria per anni e il passaggio al nuovo modello è stato cancellato in cinque minuti dal governo gialloverde che ha dato la stura, in pochi anni, al ripristino di un ampio precariato che, questa volta, può vantare solo l’esperienza, non essendo stato formato in alcun modo (spesso senza colpa, beninteso). Il FIT della Legge 107, inoltre, passava dalla formazione iniziale erogata dalle università sotto forma di percorsi a numero chiuso e a pagamento, a percorsi sempre a numero chiuso, ma nei quali l’insegnante in formazione percepiva una borsa da specializzando come accade per i medici. Cosa ne pensino gli ispiratori del Manifesto sarebbe interessante saperlo, almeno su questo punto, ma la furia iconoclasta che ha aggredito la Legge 107 ha travolto ogni ragione.
Che le conoscenze disciplinari siano importanti è ben noto, ma corre l’obbligo segnalare come un semplice filtro come quello dei recentissimi “corsi accelerati”, messi in campo sulle discipline STEM quest’estate (50 domande a scelta multipla, 35 necessarie, poi una prova orale) abbia innescato furibonde polemiche alle quali i sottoscrittori del manifesto si sono sottratti perché è scomodo prendere posizione in concreto sul tema. Quindi si sostiene che i docenti debbano essere competenti, ma si tace sul reclutamento fatto per sanatorie. Contano forse i voti? Il facile consenso? Quante tipologie di concorso deve fallire un docente con alto punteggio in graduatoria, giacché colà si accede per scorrimento e non si è mai valutati, per porre rimedio ad evidenti storture?
Quando la pedagogia ci spiega che le conoscenze disciplinari sono importanti ma non sono tutto, quando si sottolinea che occorrono anche competenze didattiche ed empatiche, relazionali, manageriali (per la gestione delle dinamiche di gruppo della classe), non si vuole certo sottendere che un insegnante di matematica non debba sapere la matematica, ma semplicemente si sostiene che dopo una laurea triennale chi voglia fare l’insegnante ne sa abbastanza per farlo e che per farlo, dopo una laurea triennale, occorre una magistrale di specializzazione orientata alla didattica nel quale convergano la psicologia dell’età evolutiva, la conoscenza delle dinamiche di gruppo, gli approfondimenti sulle neuroscienze, in particolare quelle parti che hanno a che fare con l’apprendimento dove si spazia tra gli schemi mentali, la memoria a breve e lungo termine e quella di lavoro, i necessari studi antropologici e sociologici, quelli della didattica della singola disciplina, le conoscenze scientifiche sui disturbi specifici dell’apprendimento e sull’inclusione scolastica, in particolare degli studenti e delle studentesse disabili, per non parlare delle necessarie conoscenze interculturali che sono un elemento costitutivo delle scuole accoglienti dove la media nazionale degli stranieri (?) è del 10% con forti concentrazioni che fanno anche quadruplicare questa percentuale in alcuni quartieri o tipi di scuola.
Da circa vent’anni esiste la Facoltà, poi Dipartimento, di Scienze della Formazione (un tempo “primaria”). Oggi occorre innestare un percorso di “Scienze della Formazione per la scuola secondaria”, a numero chiuso, che formi per davvero il personale della scuola.
6) Restituire centralità all’ora di lezione
Autorevoli esponenti politici hanno chiesto che gli apprendimenti non acquisiti in “didattica a distanza” vengano recuperati attraverso un prolungamento dell’anno scolastico. Questa proposta, purtroppo, appare niente più di una boutade demagogica: chiunque conosca il mondo della scuola e le dinamiche dell’insegnamento/apprendimento – e non pensi che consistano in una rapida verniciatura di “competenze” – sa benissimo che in due o tre settimane, alla fine di un periodo terribile, non è possibile recuperare nulla di ciò che si è perso in un anno di mancata scuola in presenza. Dopo vent’anni di devastanti “riforme”, occorrerebbero invece interventi precisi e profondi, per rilanciare la funzione della scuola, e cioè, prima di tutto, restituire centralità all’ora di lezione disciplinare, un’ora squalificata e messa ai margini da una serie di attività che ne snaturano la funzione e la rendono un’attività residuale. Se davvero si vuole recuperare il tempo perduto, occorre eliminare ciò che non è apprendimento e insegnamento:
-via gli inutili percorsi di “alternanza scuola-lavoro” (ora PCTO), da sostituire semmai con stage sensati e non obbligatori, se e quando ne valga la pena, fuori dall’orario scolastico e su decisione dei consigli di classe;
-via i test INVALSI, che sottraggono settimane di tempo all’attività scolastica senza che se ne siano mai chiariti il senso, la funzione e l’utilità;
-via i progetti non indispensabili (ad eccezione ad esempio della mediazione linguistica e culturale per gli studenti stranieri e dello sportello d’ascolto psicologico, attività che andrebbero potenziate e affidate a seri professionisti attraverso degli albi nazionali e non alla casualità di progetti improvvisati), che fanno dimenticare da decenni che l’unico vero, utile, indispensabile progetto che la scuola offre è l’ora di lezione. Va rovesciata la prospettiva: non è la scuola ad essere un progettificio a prescindere, è che singoli progetti particolarmente validi possono essere accolti da una scuola che però di base fa altro;
-via il RAV, le programmazioni ipertrofiche e standardizzate e tutti quei documenti in cui la descrizione astratta e burocratica dell’insegnamento prende il posto dell’insegnamento stesso, in una continua e paradossale certificazione del nulla;
-via i PTOF cervellotici che prendono a pretesto le presunte esigenze dei “territori”. Ciò che davvero offre qualunque scuola pubblica è l’insegnamento dell’italiano, della matematica, delle lingue, delle scienze, delle arti, delle tecnologie, della letteratura, della storia, della geografia, della storia delle idee, del diritto, la conoscenza di sé e del proprio corpo anche attraverso l’attività fisica e la socialità scolastica…non basta? Quelli che dicono che non basta vogliono in realtà togliere di mezzo proprio ciò che di prezioso la scuola offre;
– via insomma tutte le attività burocratiche inutili che sottraggono tempo, attenzione ed energie agli insegnanti, che devono dedicarsi esclusivamente all’insegnamento.
Osservazioni di Condorcet
Le proposte di prolungamento dell’anno scolastico sono state diverse. Quella di Condorcet supportava un’idea diversa di scansione temporale, chiedendo una rimodulazione delle chiusure durante l’anno, prolungando fino al mese di giugno. L’idea era quella di innestare sospensioni didattiche a febbraio/marzo, nel periodo più problematico della pandemia. Si voleva dare respiro all’anno scolastico, riconducendolo il più possibile a quella presenza invocata in questo punto del “Manifesto”, col solo difetto di essere una proposta praticabile. Invece si preferisce sminuire tre settimane in più di scuola (che pochi hanno chiesto) non rendendosi conto che se è vero che tre settimane più o tre settimane meno fa lo stesso, allora potremmo serenamente tornare alla scuola che finisce il 31 maggio e riprende il primo ottobre e ripristinare le vecchie festività: San Francesco, patrono del paese; 4 novembre, festa della vittoria, etc. L’idea che “l’ora di lezione” a scuola sia scomparsa è semplicemente ridicola. Basta fare un giro in una qualsiasi scuola per vedere cosa succede nelle classi: lezioni, lezioni, lezioni. Anche in questo caso leggiamo un abbaglio logico: siccome negli ultimi vent’anni si è picconata la scuola, allora occorre ripristinare “l’ora di lezione”. In buona sostanza i sottoscrittori chiedono di tornare alla scuola degli anni novanta, con un colpo di spugna che cancellerebbe quella che Berlinguer ha cercato di costruire, sintetizzando la sua vision con questa frase: “È permesso tutto ciò che non è vietato”.
Vediamo ora gli anacronismi dei punti declinati in questo punto del “Manifesto”:
- Abolire l’alternanza scuola-lavoro è un gentile omaggio alla scuola classista che non vede come ci siano scuole dove questa è vitale, in particolare negli istituti tecnici e professionali. Si ricorda che dire che se ne debbano occupare i consigli di classe è nobile, ma “chiunque conosca il mondo della scuola” sa che senza un obbligo questi resterebbero inerti perché non è economico sobbarcarsi oneri che sono certamente poco pagati, mentre la vera rivendicazione sarebbe quella di pretendere ritorni economici dignitosi per chi se ne occupi, magari trasformando queste competenze in una carriera dell’insegnante, ma le carriere degli insegnanti sono un tabù (come si diceva poco sopra).
- Che qualcuno affermi che non si sia mai “chiarito il senso, la funzione e l’utilità” delle prove INVALSI è prova manifesta di malafede giacché vengono pubblicati rapporti, saggi, resoconti e riscontri annuali, semestrali, quadrimestrali, trimestrali, mensili e settimanali. Al netto dell’iperbole di segno opposto, usata tuttavia in senso così esplicito da non poter pretendere di abbindolare nessuno, le prove INVALSI sono quelle che hanno consentito di versare maggiori risorse laddove ci sono stati risultati peggiori. L’esatto contrario di chi ne denunciava le derive “estremoliberiste” mai viste nel mondo della scuola. È di questi giorni, peraltro, la pubblicazione del primo rapporto successivo alla pandemia. Al netto delle contrapposizioni tra “guelfi e ghibellini” sulle prove INVALSI, sarebbe senz’altro utile affrontare i nodi che emergono da questi risultati: la maggiore distanza tra studenti bravi e studenti meno bravi, tra l’ “Italia bene” e “l’Italia che arranca”.
- La scuola dei progetti è quella che consente allo Stato di distribuire risorse alle scuole senza doverle spargere a pioggia. Penso sia noto come siano stati spesi i soldi negli anni ottanta e novanta, quando li otteneva chi urlava di più, chi aveva più amici al ministero, chi aveva il figlio dell’onorevole in classe. Oggi le scuole presentano progetti che sono elaborati da nuclei esperti di docenti che li coniugano alla luce di dati di fatto della propria scuola. I progetti sono votati dal Collegio dei Docenti. Se non si vogliono i progetti, e le risorse correlate, si voti contro. E invece si invoca un nemico cinico e baro che costringe le scuole a progettare. Meglio la scuola dell’ora di lezione? Del tran tran quotidiano della campanella? Queste ci sono ancora, e sono pervasive, ma si provi ad immaginare la scuola dei finanziamenti a pioggia che è l’alternativa alla scuola dei progetti. Piuttosto si istituiscano figure di supporto nelle segreterie, formando assistenti amministrativi alla gestione amministrativa dei PON giacché sono troppe le scuole che non si fanno avanti per deficienze strutturali negli uffici.
- È bene spiegare brevemente cosa è il RAV. E i documenti correlati: PdM e RS. Prima la scuola osserva se stessa e si autovaluta (RAV: Rapporto di Auto Valutazione). Non sono oscuri ispettori, marziani molto cattivi o unni che fanno le analisi del sangue alla scuola, ma è il Collegio dei Docenti che volge lo sguardo sulla propria scuola, riflette e produce un rapporto. Preso atto del rapporto fatto dalla scuola stessa, questa elabora un Piano di Miglioramento (PdM) nel quale progetta (oh, che brutta parola!) e programma azioni concrete, non vuota “retorica migliorista”, per correggere gli errori, massimizzare i risultati, migliorarsi. Anche in questo caso, non sono i perfidi messi dell’INVALSI ad imporre delle azioni concrete, ma il Collegio dei Docenti stesso che promuove iniziative che dichiara. Infine, visti i risultati di questo processo, la scuola pubblica una Rendicontazione Sociale (RS). Un documento nel quale rende noti i risultati di questo processo. Molto meglio, secondo i sottoscrittori del “Manifesto”, isolarsi in una torre d’avorio dove il resto del mondo non conta, invocando il fatto che “a scuola si lavora alla costruzione del pensiero critico” (senza spiegare come). Chiusa la porta dell’aula, ogni insegnante è re. E questo spesso è quello che si vuole perseguire. Momenti di narcisismo riconosciuto socialmente.
- Il Piano Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF) è un documento elaborato dal Collegio dei Docenti nel quale la scuola presenta se stessa. Che sia razionalizzabile, perché le scuole ne scrivono di ipertrofici, è corretto, che da tempo siano disponibili strumenti che supportano una loro redazione più snella è altrettanto vero, ma possiamo chiamarlo “PTOF” o “home page del sito della scuola”, penso che nessuna scuola possa definire i propri obbiettivi e la propria identità senza questo strumento; e che ogni genitore voglia conoscere una scuola, prima di iscrivere il proprio figlio o la propria figlia, è pacifico. Se non lo fa attraverso la lettura del PTOF, semplifichiamolo! La battaglia è questa: renderlo fruibile, non certo abolirlo.
- Nulla osta alle semplificazioni burocratiche, ma queste possono essere realizzate dalla scuola stessa, ad esempio condividendo programmazioni elaborate dai dipartimenti disciplinari. Altre sono figlie non già della “scuola liberista”, ma della “scuola giurista” che a volte è persino sacrosanta. Se c’è voluta una legge per rendere “tempestiva e trasparente” la valutazione è perché in quella che hanno frequentato i boomer, e le generazioni X e Y, capitava che i voti venissero messi l’ultimo giorno di scuola, un po’ a caso durane l’anno scolastico, per bocciare questo o quello studente. Miserie risolte con il registro elettronico, ma che erano già state superate con la comunicazione obbligatoria dei voti alle famiglie (altra “burocratizzazione”, qualcuno direbbe). E per rendere trasparente un voto, occorre che sia motivato e per motivare bisogna scrivere. Capite che scrivere delle motivazioni è più faticoso che mettere un quattro, ma questa non è burocrazia, è professionalità. E se motivare è noioso, ma tutto sommato facile, farlo seguendo dei criteri non lo è altrettanto (“valutazione criteriale” dicono i pedagogisti), ed ecco che un’altra “burocrazia” consiste nello stendere criteri di valutazione espliciti. Tassi di arbitrio sono ineliminabili, ma l’arbitrio puro è stato eliminato. Tutto questo fa parte di quello che viene chiamato “attività burocratiche inutili”. E invece sono sacrosante.
7) Rivedere l’intero impianto fallimentare dell’ “autonomia scolastica”
L’ “autonomia scolastica”, introdotta al tempo del ministro Berlinguer, da oltre vent’anni a questa parte ha trasformato la Scuola pubblica nazionale – “organo costituzionale della democrazia”, nelle parole di Calamandrei – in una serie di para-aziende in assurda concorrenza tra loro per la conquista della clientela, in inutili progettifici, in centri di potere e di proliferazione burocratica fine a se stessa, nei quali l’ambigua figura del dirigente-manager subordina quasi inevitabilmente le finalità didattiche ed educative della scuola, le uniche che la fanno esistere e le danno senso, a esigenze burocratico-gestionali ed amministrative. È indispensabile dunque restituire alla scuola l’orizzonte pubblico, democratico e nazionale che le è proprio, in modo che nessuna finalità estranea possa interferire con l’unica attività che la scuola è chiamata a compiere, quella cioè di istruire ed educare.
Osservazioni di Condorcet
Occorre parlarsi chiaro. L’alternativa all’autonomia scolastica è la “scuola ministeriale”, quella delle circolari del provveditorato, dei presidi meri esecutori di adempimenti che vengono imposti dall’alto. La scuola dell’autonomia è stata sostanzialmente boicottata per vent’anni, disinnescata sindacalmente e largamente disapplicata perché per renderci conto che esisteva abbiamo dovuto leggere delle note ministeriali che hanno aperto dei fari sulla normativa esistente e utile per affrontare la pandemia. Abbiamo nostalgici della circolare persino tra i presidi, allorquando siano atterriti dalle responsabilità che li coinvolgono, spesso altissime, ad onor del vero. La scuola autonoma ha progettato e realizzato le soluzioni che sono state diversificate e calzate su misura proprio perché ciascuno ha progettato le proprie. Poteva il Ministro dare indicazioni puntuali e uguali per tutti? I Collegi dei Docenti sono degli organismi tecnici che come i medici devono progettare le soluzioni didattiche più efficaci (per i medici sono quelle sanitarie), e invece spesso si riducono ad Assemblee sindacali camuffate. Perché lamentarsi di “ambigue figure”, individuate nei dirigenti scolastici? In quali altre amministrazioni i dirigenti vengono definiti con questi epiteti? Non sono, forse, i dirigenti scolastici altro che ex insegnanti? Perché non costruire dinamiche virtuose e professionalizzanti? Si preferisce avvelenare i pozzi, mettendo tutti contro tutti, facendo così grave danno all’utenza. E invece l’autonomia va coltivata non già nel senso della “concorrenza tra scuole”, ma in quella delle reti di scuole giacché in ogni scuola, su un dato tema, c’è qualcuno che ne sa più degli altri e in una rete c’è sempre un super esperto, quello che Dario Ianes chiama “risorsa latente”, che andrebbe valorizzato e “messo in comune”. Cosa che l’autonomia scolastica consente di fare (senza doverlo chiedere al provveditorato).
Corre l’obbligo ripetere che nella scuola dell’autonomia “è permesso tutto ciò che non è vietato”. Cosa vogliono di più gli intellettuali che hanno sottoscritto il “Manifesto”?
8) Un diverso rapporto numerico tra studenti e insegnanti
Infine, occorre fare ciò che tutti annunciano e nessuno realizza: diminuire nettamente il numero di studenti per classe, in modo che gli insegnanti possano davvero dedicare tempo e attenzione alle esigenze di ogni studente, operazione oggi più fattibile grazie ai previsti finanziamenti europei. Occorre mettere fine al paradosso per il quale si chiede agli insegnanti di attuare una didattica personalizzata – richiesta che si risolve in realtà nella proliferazione burocratica e nella richiesta di “certificazioni” di ogni tipo – e contemporaneamente gli si impedisce di farlo, imponendo loro di lavorare in classi sovraffollate in cui sono presenti fino a trenta/trentacinque studenti. Non è un caso che il numero dei partecipanti a un gruppo di discussione, secondo la psicologia dei gruppi, vada limitato a un massimo di quindici, pena l’impossibilità dell’aggregazione e del funzionamento del gruppo stesso; per la scuola, bisogna ribadire chiaramente che in nessun caso, almeno, vadano formate classi con un numero di studenti superiore ai venti.
C’è inoltre da smontare subito quella che, nel migliore dei casi, può essere considerata un’ingenua illusione, l’idea cioè che gli strumenti digitali permettano agli insegnanti di seguire un numero ancora maggiore di studenti, magari attraverso la produzione di video da mostrare in lezione asincrona. È vero esattamente il contrario: la “didattica a distanza”, largamente inefficace con le persone in crescita, visto che per bambini e adolescenti non esiste apprendimento che non passi per la relazione e per continui scambi e feedback verbali e non verbali, richiederebbe semmai un rapporto uno a uno tra studenti e insegnanti, per poter avere una sia pur limitatissima validità.
Osservazioni di Condorcet
Il fatto che non siano possibili aggregazioni in classi con più di quindici alunni fa supporre che nelle classi con meno di quindici alunni le didattiche adottate siano quelle attive, come ad esempio il cooperative learning. E invece così non è. Il fatto che i soldi che ci vengono dai prestiti europei siano tanti, non significa che siano infiniti e che possano sostenere esborsi per classi diffuse di quindici studenti. Tutti vorremmo andare in ferie in un hotel a cinque stelle, ma tutti facciamo i conti col budget che abbiamo e spesso ci accontentiamo di molto meno. Peraltro non sono note ricerche che mostrino maggiore successo formativo in classi piccole. Inoltre, non del tutto banali conti sulle finanze dello Stato, ma sostanzialmente equipollenti ai “conti della serva”, mostrano il fatto che pretendere aumenti stipendiali e, contemporaneamente, diminuzione di alunni per classe sia possibile in un’economia florida e senza debito pubblico, di conseguenza capace di finanziare tutto questo ben di dio. Invece siamo in una crisi economica abbastanza evidente e soffocati da un debito pubblico tra i più rilevanti del pianeta. Ragionare come sognatori non aiuta a migliorare la situazione, temiamo. Infine, le classi pollaio esistono, ma sono spesso prodotte da egoismi di Sindaci di paesini che rifiutano accorpamenti. Questo significa che, data la conformazione del paese, è doveroso avere una scuoletta all’isola d’Elba e una a Lampedusa, ma non lo è in ogni paese dei tanti entroterra di un paese con un’orografia complicata. A titolo di esempio, in Liguria il numero medio di studenti per classe è di venti persone, proprio quelle indicate dai sottoscrittori del “Manifesto”, ma se la percezione è diversa, questa è dovuta a diversi fattori, alcuni dei quali elenchiamo: chi sta in classi piccole tace, chi sta in classi pollaio si lamenta rumorosamente; chi sta in classi pollaio non conosce i termini del problema e chiede di risolvere il proprio in maniera “egoistica”, ma la soluzione danneggia terzi (la media è di 20, ma se ci sono classi numerose vuol dire che ci sono egoismi noti e ignoti e anche vincoli sacrosanti); alcune classi con basso numero di studenti contengono persone con disabilità, questo aumenta il numero di studenti in classi senza disabili. Corre l’obbligo osservare una certa disonestà intellettuale allorquado si indicano classi di 30/35 studenti. In particolare stupisce il 35. Quelle più numerose arrivano a 32, e non sono certo frequenti. Non possiamo negare la possibile esistenza di quelle di 35 studenti e forniamo una possibile spiegazione: sono costruite in certi istituti tecnico/professionali dove vengono offerte diverse tipologie di indirizzo. Può succedere che 35 chiedano l’indirizzo A, 25 l’indirizzo B e 15 l’indirizzo C. La scuola dovrebbe esplicitare criteri di selezione per impedire la formazione di concentrazioni e, di conseguenza, gestire numeri adeguati (nel nostro caso tre classi da 25 studenti, riversando i soprannumerari nelle altre sezioni). Questa classe da 35 persone, invece, resta per non scontentare nessuno e con l’accordo di tutti (accade che il dirigente espliciti la questione e dica: “chi voglia spostarsi, visto il numero abnorme, lo può fare” e nessuno lo fa).
Dell’ingenuità della posizione in merito alla didattica a distanza si preferisce tacere perché è del tutto evidente che un materiale ben costruito possa essere fruito non già da una persona, ma da milioni e questo non lede il valore dell’insegnante che dovrà sempre più essere assemblatore di eccellenti risorse in rete, più che produttore (peraltro, oggi è spesso semplicemente ancorato alla “didattica del libro”, come viene etichettata da un esperto qual è Antonio Fini).
Il “Manifesto” che ci siamo trovati a commentare è “centrato sull’insegnamento” e dimentica due grandi portatori d’interesse della scuola di oggi: le studentesse e gli studenti, da un lato, il personale ATA dall’altro (ma anche i genitori e il territorio). Sul personale ATA sarebbe necessario aprire una significativa parentesi, ad esempio sugli assistenti amministrativi per i quali è urgente l’istituzione del “super assistente amministrativo” che deve avere gli stessi requisiti in ingresso di quelli di un DSGA. Per questa nuova figura sarebbe senz’altro possibile aprire dei concorsi che sono impossibili oggigiorno per il personale ATA, oggi semplicemente diplomato (tranne i DSGA, appunto), essendosi rassegnati allo scorrimento delle graduatorie per figure che, nei fatti, reggono amministrativamente la scuola (molte si rifiutano di partecipare ai progetti perché carenti di competenze negli uffici!). Una petizione promossa da Stefano Stefanel in tal senso ha raccolto più di mille adesioni tra DS e DSGA ed è all’attenzione del ministero.
In conclusione, siamo perfettamente consapevoli del fatto che per confutare un “Manifesto” di tre pagine, che perlopiù verranno lette in sintesi solo per l’elenco dei punti scritti ad arte per essere convincenti ed evocativi, ma di fatto apodittici, occorra scriverne dieci che verranno lette da un millesimo dei lettori del primo. Siamo tuttavia idealisti e ci piace informare quei quattro lettori che avranno la bontà di leggerci di quanto siano più complicate le cose.
Foto: Ash