Nel mercato del lavoro globalizzato è sempre più importante tenere conto del nesso tra due concetti che spesso vengono contrapposti mentre andrebbero integrati, “innovazione” e “umanesimo”. E quale luogo migliore per integrarli se non la scuola? Ma questa non può essere lasciata sola. Da qui l’esigenza di far uscire la scuola da una comoda autoreferenzialità, abbattere il muro che la separa dalla società e in particolare dal mondo del lavoro. Ecco perché “lavorare” fa e farà sempre più rima con “imparare” e alle fondamenta del nuovo sistema educativo ci deve essere sempre più il nesso tra scuola e lavoro.
Affrontare senza più tabù o preclusioni ideologiche il rapporto con il mondo del lavoro è quanto ci proponiamo di fare. Solo nella formazione professionale (nelle regioni dove esiste) e nell’istruzione tecnica superiore (per le poche migliaia di studenti che vi accedono ogni anno) si ottengono buoni risultati. In generale, invece, le scuole superiori comunicano male con le esigenze culturali, organizzative, scientifiche, tecniche e produttive del paese. Dare un ruolo centrale a questo tema non significa assoggettare la scuola a una logica “economicistica” e “aziendalistica”, ma dare un contributo fondamentale alla realizzazione concreta dei principi costituzionali. “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (Cost., art. 3). Il sistema educativo deve fornire a tutti competenze e strumenti per agire nella realtà sociale, economica e politica nella quale viviamo: se gli strumenti per stare nel mercato del lavoro non li dà la scuola, chi può permetterseli li “compra” e chi non può sarà messo sempre più ai margini, esattamente come avveniva nel secolo scorso per il sapere di base.
A partire da questa visione, l’alternanza scuola-lavoro va collocata nella giusta prospettiva. L’alternanza non è apprendistato, ma apertura al mondo del lavoro, quindi anche orientamento. Inoltre, il rapporto tra scuola e lavoro non è solo l’alternanza, ma questa deve essere solo una parte in un sistema più comprensivo. In concreto, nel secondo ciclo di istruzione (coerente con il modello proposto sopra, cioè dopo i 15-16 anni) si possono pensare questi tipi di interventi: per ogni indirizzo di studio, percorsi di alternanza e orientamento inseriti coerentemente nel percorso di studi; un canale parallelo di istruzione e formazione professionale, robusto e diffuso su tutto il territorio. Per il terzo ciclo di istruzione bisogna investire massicciamente nell’istruzione tecnica superiore, che si trova ancora in una posizione molto marginale: la tendenza italiana a creare posti di lavoro a bassa qualificazione si spiega anche con l’eccessiva divaricazione dei percorsi post-diploma, tra una minoranza di studenti che segue gli studi universitari e una maggioranza che finisce gli studi. Manca quasi del tutto la formazione terziaria non universitaria.
Infine, la formazione permanente: la partita più importante si gioca qui. Non è più sostenibile un sistema basato su una separazione netta tra una fase della vita nella quale si accumula il sapere necessario per le fasi successive e queste ultime nelle quali, al massimo, lo si aggiorna. In una società altamente differenziata questo significa condannare ampi strati della popolazione alla subordinazione sociale, alla precarietà, a lavori poco qualificati, a redditi bassi. Senza trascurare il tema della crescita civile del paese (la responsabile consapevolezza di nuovi diritti e l’impegno nella costruzione degli strumenti per farli riconoscere), nonché quello fondamentale di rafforzare la qualificazione dei cittadini, che possono aspettarsi di essere finalmente messi in condizione di avere opportunità e strumenti permanenti.
Un sistema integrato di istruzione e formazione capace di ripensarsi in questo modo potrà sostenere anche la più importante innovazione che serve al paese: per tutti i lavoratori (e per tutti i cittadini nei periodi di non lavoro) la garanzia di un diritto soggettivo alla formazione e alla certificazione di quanto acquisito, colmando i ritardi. Un esempio? Il libretto formativo, con la certificazione dei crediti acquisiti in attività formative, è previsto dalla Legge 196/1997 e ancora non ha visto la luce: qui più che a un’occasione mancata siamo di fronte a una chimera! Serve infine una governance comune di tutte le agenzie formative pubbliche e private (scuola, formazione, ITS, lauree professionalizzanti, competence center ecc.) che si occupano di formazione e apprendimento.
Immagine: Espen Sundve