Il problema della scuola è gestire (meglio) il sistema

Questo articolo, scritto con Francesco Luccisano, è stato pubblicato sul Foglio del 11/08/2020

Negli ultimi giorni si sono susseguite notizie importanti sulle assunzioni di nuovi insegnanti. Proviamo a capirne meglio il significato: scopriremo che, per quanto in larga parte necessarie, queste assunzioni non risolveranno i problemi della scuola italiana. Perché, contrariamente a quanto si legge, alla nostra scuola non mancano i prof, ma una politica di gestione efficiente delle risorse disponibili: proviamo a dimostrare questa tesi attraverso tre indizi, e offriamo alla fine tre possibili rimedi.

Partiamo dai i numeri. Il MEF ha autorizzato giovedì scorso l’assunzione di 85.000 docenti a tempo indeterminato a partire dal 1 settembre 2020. Sgombriamo subito il campo da un equivoco: non sono insegnanti in più, ma insegnanti con un contratto stabile in più. Quelle infatti sono posizioni attualmente già in organico (che ammonta complessivamente a 770.000 docenti), ma non occupate da nessuno: se non saranno occupate da vincitori di concorsi vecchi o nuovi lo saranno da precari, magari con esperienza (non sempre, come vedremo), ma certamente mai formati, né selezionati. È il precariato patologico: posti che vanno a supplenti solo perché lo Stato non è capace di programmare per tempo un reclutamento degno di un paese civile. Con grave danno per gli studenti (costretti a cambiare più volte docente durante il percorso di studi), per i docenti (costretti al precariato), per il sistema (che si ritrova con personale non formato, non selezionato ed è costretto a convivere con l’eterna richiesta di stabilizzazioni ope legis dei precari). Ecco il primo indizio.

Gli insegnanti in più, invece, ci saranno: sono i 40.000 che saranno assunti a tempo determinato per quest’anno di distanziamento sociale, nella speranza che siano usati bene e, aggiungiamo, nella certezza che tra 12 mesi saranno sotto il Ministero a chiedere la stabilizzazione. Magari con la scusa di porre fine alle “classi pollaio”, mantra tanto cari alla Ministra Azzolina e al dibattito per luoghi comuni che caratterizza la scuola italiana, su cui è utile fare qualche puntualizzazione. Secondo l’OCSE la dimensione media di una classe di scuola primaria in Italia è di 19 bimbi (24 in Francia, 21 in Germania) e alle superiori l’Italia ha 10 studenti per docente (la Francia 13, la Germania 11). Siamo meglio della media. Gli insegnanti ci sarebbero, dunque, ma non sono nel posto giusto e non hanno la giusta classe di concorso. Perché sono gestiti male. Siccome ciascuno di noi ha avuto almeno una esperienza di classi da 28-30 alunni, è evidente che se la media è quella la dimensione delle classi non è equamente distribuita tra le diverse scuole. Troppo spesso il ragionamento è stato il seguente. Siccome Pina ha due polli e Gina non ne ha nessuno, dò mezzo pollo in più ad entrambe perché è l’unico modo per far mangiare anche Gina, senza perdere consenso.

Eccolo il secondo indizio, reso ancor più evidente dagli squilibri territoriali che si sono creati nel tempo. Dove sono le cattedre vacanti e disponibili? Quasi tutte nel centro-nord. Perché? Citiamo tre ragioni: perché al centro-nord un laureato ha alternative valide e ben retribuite all’insegnamento (forse sarebbe meglio dire aveva: 470.000 domande per il prossimo concorso alle superiori, il 40% – più del passato – proveniente da regioni del centro-nord, età media più bassa del passato, prevalenza di donne, ma anche qui meno del passato) e perché la popolazione studentesca è molto più consistente (65% del totale), ma anche – e qui entra in ballo la questione della gestione – perché i trasferimenti dei docenti hanno nel tempo accentuato questo squilibrio.  La conseguenza? Come al solito la pagano gli studenti: nel centro-nord non ci sono abbastanza insegnanti disponibili su alcune classi, e si è spesso costretti a far lavorare personale non formato, in alcuni casi nemmeno laureato. Questo squilibrio territoriale rende inoltre poco probabile che tutte quelle 85.000 cattedre saranno coperte da personale di ruolo. Solo dal 2015 si è cominciato ad introdurre alcuni correttivi, tra cui bandire concorsi ogni due anni e tentare, timidamente, di limitare la possibilità dei docenti di spostarsi dopo aver preso l’incarico. Ma il sistema, fortemente centralizzato, è vulnerabile: è bastato che il Governo Conte I non bandisse un concorso per far esplodere di nuovo il precariato patologico.

Terzo indizio: il rapporto con i sindacati. Paradigmatica è la gestione delle assunzioni, a tempo determinato, di 40.000 docenti aggiuntivi per l’emergenza Covid. Essendo docenti collegati ad una emergenza ha senso che siano a tempo determinato. Gli stessi sindacati nei loro documenti e prese di posizione pubblica di giugno e luglio chiedevano assunzioni a tempo determinato. Quando sono stati annunciati questi docenti non si è trovato di meglio che polemizzare sul fatto che lo Stato li sfrutterebbe per poi licenziarli a giugno. Al netto di una valutazione della coerenza di ciascuno, il sospetto che si stiano portando le mani avanti per chiedere l’ennesima sanatoria a chi scrive è venuto.

Tre indizi fanno una prova: il nostro sistema scolastico non manca di personale, né di leggi: manca di gestione. Oggi un preside non ha gli strumenti che servono per tenere un insegnante in una scuola per il tempo necessario a migliorare il suo funzionamento, e garantire stabilità ai suoi studenti. Non ha strumenti formali, perché il diritto alla mobilità dei docenti prevale su quello degli studenti alla stabilità. Non ha strumenti economici, perché tutti i docenti sono pagati in maniera indifferenziata, salvo che per anzianità (anche il minimo fondo per il merito introdotto con la Buona scuola è stato tolto alla disponibilità dei presidi). E non ha strumenti organizzativi, perché la possibilità di dare ad alcuni docenti ruoli più importanti dentro la scuola è minima, e non corroborata da un corrispettivo economico.

 

Che fare quindi, per non sprecare gli investimenti in istruzione che potrebbero essere resi più facili dall’allentamento dei vincoli di bilancio post covid? Primo: ripensare con coraggio la carriera degli insegnanti. Portare i concorsi al livello di scuole o reti di scuole, dando agli insegnanti gli stessi diritti alla mobilità di tutti i dipendenti di enti locali per limitare le rotazioni e il ricorso a supplenti. Nel contempo, assicurare che i docenti crescano professionalmente in una scuola divenendone il “middle management”, e dunque creare i quadri della scuola, una porzione di insegnanti che si prende maggiori responsabilità formative, organizzative e progettuali all’interno della scuola e per questo accede a uno scatto di carriera ulteriore.

Secondo, creare un fondo per i gap formativi, gestito dalle scuole con contrattazione decentrata per tenere i docenti nelle scuole più difficili. Può avvenire nelle scuole di aree con un costo della vita molto alto, o in zone remote e poco attrattive (le cosiddette aree interne), o ancora in aree caratterizzate da tassi di abbandono elevati o esiti degli apprendimenti problematici. Lì chi si ferma, firmando un patto formativo pluriennale con la scuola, deve essere premiato, anche temporaneamente, dal punto di vista economico.

Terzo, e ultimo: usare di più rispetto al passato lo strumento del contratto. Una sfida per i sindacati della scuola e la politica a dare di più, diventando parte attiva nel costruire una scuola diversa. Le prime due misure proposte richiedono più risorse per i docenti, ma a una condizione: non considerarli più una massa indistinta a cui promettere stabilizzazioni e distribuire (ridottissimi) aumenti a pioggia. La terza richiede un patto bipartisan (che metta al riparo ogni scelta dai cambi di maggioranza) e soprattutto il coraggio di lavorare solo per le prossime generazioni, rinunciando a usare la scuola come strumento di consenso di breve periodo.

Foto: Wikimedia Commons